Il passo dell’elefante

23 gennaio 1994

di Gabriele Perretta.

Alla base del linguaggio pittorico di Claudio Cusatelli sta una condizione di produttiva mobilità. Il soggetto agente del fare pittorico compie continue escursioni nello spazio della tela. In tal modo la nozione di passaggio inizia una metamorfosi radicale, disponendosi oltre il quadro per entrarvi dentro orizzontalmente come ambigua ispirazione dei rapporti tra soggetto e mondo.
Il senso è ormai la cosa meno condivisa della pittura, ma la questione del senso della pittura è ormai il destino del suo linguaggio, senza riserve né scappatoie possibili, dice Jean-Luc Nancy in un suo brillante passaggio sul pensiero finito dell’arte. La pittura è quella zona del linguaggio che è più vicina all’essere, in “maniera tale che ogni volta si tratta dì una singolarità finita” (Un pensiero finito, a cura di Luisa Bonesio, Marcos y Marcos. 1992 pag. 7-24-61).
Di fronte alle cose che accadono, intese come eventi irriducibilmente singolari e dotati di una lingua che ha una struttura superiore e più complessa rispetto alla pittura, un pensiero ed un’azione artistica così semplice, quale è l’attività del colore sulla tela, deve riconoscere i propri limiti e prendere atto della fine dell’arte e della pittura come inizio di un esercizio che è al limite di un compito etico.

Nell’attuale situazione culturale la pratica della pittura assume un’importanza notevole, grazie ad una dimensione politica della comunicazione più evoluta e ad una realtà più complessa ed organica dei processi di influenzamento e di interazione dell’arte.
Perché continuare a rincorrere fantasmi notturni d’una pittura tramontata? La “missione storica” della pittura è irrimediabilmente finita e sepolta, e nessun taumaturgo sociale riuscirà a risuscitarla, neanche un novello Van Gogh o Picasso. La scoperta di un’attività espressiva fuori dal calice della Memoria è stato l’ultimo atto veramente degno, sebbene incosciente, della missione estetica della pittura. Dopo è venuto il tramonto, il lungo, tormentoso e abominevole crepuscolo delle colonizzazioni e della pirateria fattosi pennello: quattro decenni e mezzo di spietate spoliazioni, di smembramenti senza fine, di schiavismo e dì maggiore abbrutimento di quel buon selvaggio, sul quale quel pittore europeo dei Settecento teorizzò allegramente e versò nei salotti lacrime di coccodrillo.
Eppure, nonostante tutto questo, si parla ancora pomposamente di grandezze della pittura, di missione storica del suo mandato. Ora che il colonialismo della creatività è tramontato e i nazionalismi sono rimasti delusi, si ritorna a parlare di una pittura composta, unita, d’una fratellanza tra i regimi di segni, si rinverdiscono nuovi generi di messianismi e di avvenirismi. Ma la pittura, quella praticata e non teorizzata come ritorno di esso stessa, è una rivelazione di verità concreta che trasforma e regola la vita, ed è insieme una condotto pratica, è l’anello di Salomone. Le sue origini presenti, le sue cause di attualità sono dichiaratamente antipittoriche. In politica la pittura ha preso le mosse dall’eterna rivale di se stessa, in estetica si è attaccata al cordone ombelicale della sua forza metanarrativa. Per questo procedimento di altri tempi così efficiente, ma così sprovveduto di fronte al dolore dei superamento tecnico, così incapace di cogliere il senso profondo dell’evoluzione economica ed industriale della nostra epoca, la pittura stessa come iconografia ha preparato un rischioso ma sottile sostrato di metaconcettualità, dove essa è maestra ed esempio. Claudio Cusatelli compone i suoi lavori più singolari partendo da una griglia che svanisce sotto i nostri occhi, la tecnica rimanda al futuro di ciò che ormai è inamovibile dal punto di vista dello sguardo. Sulla superficie sembra stendersi un velo opaco, comprensibile e leggero, se non addirittura di rigetto e di sovrabbondanza dell’informazione, che noi chiamiamo ancora pittura iconografica, pittura di strisce televisive che cadenzano cinematograficamente le sequenze.

L’esempio di questa pittura, della pittura di Cusatelli, nel germinaio delle molecole impazzite della nostra storia, è una miniera per un artista chiamato a seguire un destino doloroso, difficile, incomprensibile e candidamente rosato quanto la notte attorno a lui. La notte di una civiltà che non ha tempo di fermarsi per rispondere alle sue domande.
Per Cusatelli la pittura, come per Michele Carone, per Fabrizio Passarella, per Luigi Mastrangelo, è un mondo significativo, introspezione di un dramma della presenza, contenuto di antinomie affrontate non senza sprazzi di radicalità e perpendicolarità. Camminando sulla strada per Trevi, Cusatelli esce dal cenacolo delle tele ripetute e si incammina in un lavoro di cinque più cinque cipressi fatti a formato di aste che rincorrono un centro, come il movimento di una telecamera che inquadrando un particolare è in grado di restringere il campo di volta in volta verso il centro. L’espressione dei cipressi che seguono questa continuità lascia prevedere che l’artista ha concepito il pezzo guardando le sequenze di alberi che coronano la strada e il ricordo dell’Umbria si fa spregiudicato e scandagliato fino ad essere pronunciato in difesa di una innocenza minimale.
E’ stato necessario fare questa precisazione per passare ad un lavoro come Boom (tipica espressione fumettistica) che si compone di 49 pezzettini raffiguranti ognuno una piccola rosa, disposti ordinatamente su sette file da sette, con accanto il quadro (110 x 110) cm di una rosa grande. Ma è anche importante tener presente le altre accezioni del Boom che sono le opere Baci e spari, dove si vede in trasparenza l’immagine, tratta dal famoso film Notorius, del bacio fra Ingrid Bergman e Cary Grant, e quella con la fotografia dei fotogiornalista del New York Time Salisbury, che riprese il comandante della polizia sudvietnamita Nguyen Ngoc che uccide a sangue freddo un vietcong sospetto nelle strade di Saigon.
La strada della pittura, che in trasparenza conserva queste immagini che ormai fanno parte dell’immaginario popolare, sono le icone più rispondenti all’esprimere adeguatamente le esperienze fictionali di questa pigmentazione cinematografica. Lo stesso potremmo affermare del fulmine che saetta l’una e l’altra iconografia, la Pantera Rosa che si aziona come in un documentario naturalistico, e il Giallo Rosa che secondo l’ironia di Cusatelli sta a parafrasare e ad ironizzare su quei romanzi d’appendice con una suspance controllata e gradevole, in grado di perturbare la sensibilità delle casalinghe, quelle che dietro la bontà cristiana nascondono, leggendo il giallo rosa, una violenza audace verso i gattini da ammazzare e sotterrare alla prima distrazione del vicino.

In realtà ci troviamo di fronte ad una pittura che è un fenomeno ben più complesso di quello che si vede e ciò era confermato dalla mia ricerca ultimata nel 1993 dal nome Medialismo per conto della Politi Editore.
Gli stessi gesti ed atti liturgici di questa teoria sono popolati nei quarantanove elefanti che Cusatelli denomina Dalle piramidi alle Alpi (Passando per un campo di pomodori) dove il cinquantesimo elefante è composto da una grande tela che si amalgama tramite l’ausilio della scacchiera dei quarantanove precedenti.
Ma si può in base a ciò affermare anche la trasparenza simbolica di alcune di queste immagini? Ciò che può senz’altro dirsi della secolarizzazione di una immagine dell’elefante, come quello che vediamo nell’ironica perifrasi delle Alpi e delle piramidi, è proprio l’icona dell’elefante, quel elefante che secondo l’Occidente rappresenta l’immagine vivente della pesantezza e della goffaggine, mentre per la filosofia dei continente asiatico il grande pachiderma ha costituito il simbolo dei potere regale, il nome di Shiva nelle sue funzioni di sovranità. E’ necessario perciò approfondire la singolare vicenda di una iconografia siffatta, anche se non vogliamo avvicinarci ad essa attraverso riferimenti puntuali che in questo caso potrebbero apparire superflui. Valga per tutte l’affermazione che rimane in Occidente di Plinio ed Eliano “Quando splende la luna nuova gli elefanti mossi da un’intelligenza naturale e misteriosa, portano ramoscelli strappati alle foreste dove pascolano, li innalzano e, volgendo gli occhi verso il cielo, agitano dolcemente questi rami come se rivolgessero una preghiera alla dea per rendersela propizia e benevola”.
Non possiamo, quindi, identificare il nuovo col nuovo e il vecchio col vecchio, una incisione dei XVII secolo illustra una credenza mostrando un elefante in lotta con un cinghiale, quella illustrazione sottolinea, secondo l’interprete della stampa, il pudore contro la libidine, un pudore che è contrario a qualsiasi forma di passionalità repressa, sopratutto per Aristotele che considerava l’elefante, il simbolo di difesa dalla menzogna dei tradimento. Per sua natura, quindi, la pittura tende ad una alterità capace di comprendere il fenomeno fissato poeticamente e farne un oggetto di finzione. Si dovrebbe dire che tale alterità riguarda in primo luogo lo stesso pittore, il quale attraverso la sua creazione diventa il primo e più privilegiato contemplatore di essa. E con questo resterebbe placata l’esigenza seriale, continuativa, legata ad una scansione ritmica da film e da musica che è alla base della pittura di Cusatelli.

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