Tratto dal catalogo “Imprinting” di Claudio Cusatelli, 2004
di Gianrico Carofiglio, scrittore e magistrato.
“Mi scusi, posso farle una domanda ?”
Quasi sobbalzai. Aveva parlato senza girarsi – solo in movimento appena accennato dal capo – e senza preavviso. l’accento era impercettibilmente straniero. E lei era bella, con gli zigomi alti, un naso largo che le dava anche un’aria decisa e simpatica, i capelli lunghi e scuri.
“Prego”
Prego. Una vita che giuravo a me stesso che non avrei mai più usato quell’espressione, assieme a salve, buondì e altre schifezze del genere.
“Vorrei sapere il nome del suo profumo.”
“Il mio profumo?”
Sorrise leggermente. La testa si girò ancora un po’ verso di me. In un modo strano però.
“Si è molto buono. E’ aspro, ma c’è una punta dolce. Fiori, e qualche altra cosa che non riesco a riconoscere. L’ho già sentita temo fa.”
Avevamo provato un profumo in uno dei negozi dell’aeroporto. Stavo per comprarlo quando avevo sentito la chiamata del mio nome, all’imbarco. Mi ero distratto ed ero in ritardo, come al solito. Cosi ero corso via, abbandonando il flacone sullo scaffale. Non mi ricordavo né il nome né la marca . O forse nemmeno li avevo letti. Glielo dissi. Lei sorrise di nuovo con quell’aria un po’ decisa, un po’ assente. Lontana.
In quel momento mi resi conto che era cieca.
Volavamo verso Madrid. Di li sarei ripartito per il Cile. Lei invece si fermava, tornava a casa.
“Vorrei evitarle imbarazzi. Io sono cieca. ”
Non dissi niente. Non sapevo che dire. Cosa si dice in queste situazioni?
“Allora se n’era già accorto ?”
Borbottai qualcosa di impacciato. Lei sorride ancora.
“Cosi a Madrid prende un altro aereo per il Cile.”
“Si, ci vado per lavoro.”
“Che lavoro?”
“faccio il fotografo.”
“Oh!”
Rimase in silenzio per molti secondi.
“non va bene, il fotografo?” Cosi, per darmi un tono disinvolto e spiritoso. Non ero proprio a mio agio. In mezzo ai territori del desiderio e del rimpianto. Mi apparvero scritte in mente proprio quelle precise parole. Mixing memory and desire .
“Mio padre, era un fotografo.”
“Ah”
Il suo papà, quando era poco più che un ragazzo, aveva conosciuto Robert Capa – il mio mito – e aveva lavorato per la sua agenzia, la mitiga Magnum.
Come Capa era morto facendo fotografie di una guerra lontana.
Lei era cieca dalla nascita. Non aveva mai potuto vedere le fotografie fatte dal papà, come tutto il resto. Quando tornava dai suoi viaggi le raccontava delle cose che aveva visto e fotografato. Ma a lei non bastava sentire i racconti.
“Allora a papà venne un’idea. Cominciò a regalarmi i plastici delle città dove ero stato. Non di tutte, ovviamente. Quelle che amava di più. Così potevo toccarle, e potevo conoscere i posti dove era stato. Le punte aguzze di New York e in mezzo, morbido, Central Park. I colli di Roma. Il Portenone. Mi fece fare anche un plastico di Venezia, con i canali, e l’acqua. Mi piaceva moltissimo andare a Venezia, e bagnarmi le dita nei canali.”
Le guardai le mani. Le teneva sulle gambe, sulla stoffa concreta del jeans. Erano grandi e davano un’impressione di forza. Ebbi l’impulso di toccarle e davvero dovetti trattenermi.
“Sa, anche i cechi dalla nascita riescono a vedere le cose nella loro mente. E i colori. Ah, non lo so se sono uguali ai vostri. Ma sono colori, macchie luminose, e forme che appaiono quando sento un odore, o una musica. Soprattutto quando tocco una cosa… o una persona”
Mi venne in mente quel racconto di Carter. Quello del cieco, che a casa aveva due televisori. Uno a colori e l’altro in bianco e nero. Lui accendeva sempre quello a colori.
Non sapevo bene come c’entrasse. Mi venne in mente. Così.
“Lei sa ascoltare. Non capita spesso di incontrare persone capaci di ascoltare. E’ un grande dono.”
E poi dopo una pausa.
“Crede che la racconti a tutti questa storia ?”
“No.” Fui stupito dalla decisione con cui risposi.
“E’ così. Non la racconto mai. Perché l’ho raccontata a lei ? Io non lo so.”
“Non lo so neanch’io.Mi piacerà pensare che c’era un buon motivo.”
E dopo qualche istante:”Mi piacerà pensare che c’era un motivo speciale.”
A volte capita di dare la risposta giusta, e di saperlo in quel preciso momento. Raramente, ma capita. Lo sapevano tutti e due.
Cosi rimanemmo in silenzio. A lungo, fino a quando l’aereo non cominciò la sua discesa.
Fino a quando dal finestrino non cominciai a vedere la case di Madrid.
Chissà com’era sotto le dita, madrid. Chissà com’erano tutte quelle altre città, tutto il mondo attraverso la punta delle dita. Sentii una fitta incomprensibile di nostalgia. Quella che si prova per le vite non vissute, per le vite degli altri che intravediamo attraverso una finestra illuminata, quelle che ci passano accanto, un attimo, e poi scompaiono.
“Posso toccarti la faccia?”
Mi scossi. Cercai qualcosa da dire. Per non dire solo si.
“Voglio ricordarmi di tè. Ho questo profumo, ghe non è il tuo, ma per me sarà sempre il tuo. Quando lo sentirò di nuovo penserò a te. Vorrei anche il tuo viso, nelle mie dita.”
“Si”
L’aereo scendeva. Adesso lei era proprio girata verso di me, e sembrava mi guardasse, attraverso quelle lenti scure. Mise le sue dita sulla mia faccia. Erano asciutte, fresche e profumate. Mi percorse le sopracciglia, il naso, la bocca. Gli occhi che avevo chiuso senza accorgermene.
Avevo i brividi quando anch’io le toccai il viso, mentre l’aereo toccava terra.
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